La maggior parte dei libri che ho letto li trattengo molto in profondità, in un luogo di quasi inconsapevolezza. La maggior parte, o forse tutti, tendo a dimenticarli. Eppure ci sono libri che mi hanno emozionato in un modo difficilmente “raccontabile”. Tra questi, sicuramente Horcinus Orca di Stefano D’Arrigo. Un libro di cui non avevo mai sentito parlare e che regalai ad Antonio, lettore molto più accorto di me, che era curioso di leggerlo. Lessi questo libro un pò per miracolo, tanti anni fa. Non so davvero spiegare come ci sia riuscita benché ne vada sinceramente orgogliosa. L’ho letto per miracolo perchè questo è un libro “oceanico”, che si fa fatica ad affrontare. Primo perché è un libro di oltre mille pagine. Secondo perché è scritto in italiano e dialetto siciliano, con una predominanza di parole e termini di quest’ultimo modificati rispetto a quelli originali se non addirittura inventati. Insomma, quasi un’altra lingua. Eppure, per chi ne avesse voglia e volontà, potrebbe essere davvero un bellissimo viaggio. Io, tra i libri belli e che mi son piaciuti, lo consiglio sempre questo e, visto che non ne so parlare per evidenti limiti di conoscenze e cultura, alla ricerca di pensieri e commenti di altri sulle cose che mi hanno appassionato, ho un giorno trovato questa lettera che mi è sembrata davvero un bell’omaggio e che ho pensato di riportare qui, nei suoi tratti più significativi. Buona lettura.
Il più bel libro di tutta la “letteratura italiana” di Claudio Cinti
“Caro Francesco, rispondo al tuo invito, e ti scrivo di questo libro. Ma non so che cosa ne scriverò, né come fare a “consigliarlo”. Scriverò di getto, così come mi viene, quel che in questo momento mi passa per la testa. Dare consigli di lettura non è il mio forte e riceverne, di solito mi irrita. I libri, uno deve trovarli da sé, oppure accettarli in dono, ma a condizione che non si senta obbligato a leggerli. Questa è tutta la mia etica in fatto di libri. L’immagine del “lettore ideale” è per me quella di mio nonno Mario Cinti, che mi iniziò alla lettura senza consigliarmi e senza darmi lezioni. Non smetto mai di rivederlo, seduto sulla sedia a sdraio della cucina, con gli occhiali sulla punta del naso, un libro aperto fra le mani, altri due nelle tasche della giacca da camera annodata alla cintura; libri economici, quasi sempre comperati alle bancarelle, perché era quanto poteva permettersi negli anni ’60 un ferroviere in pensione. (…) Da lettore a lettore, caro Francesco, possiamo ben confessarci questo “vizio assurdo”, giustamente incomprensibile a chi non ce l’ha o non ha mai sognato di praticarlo: che le tappe significative della nostra esistenza non sono segnate sul calendario, ma contrassegnate dai libri con cui ci siamo letti dentro la storia che abbiamo finito per essere, rappresentare. Così io qui mi rappresento un giorno di maggio dell’88 quando, nella oggi estinta libreria Fagnani di Ancona (…) raccolsi da un banco dei “metà prezzo” un bizzarro Oscar Mondadori con il disegno di un’orca sulla copertina bianca. Bizzarro, perché non voleva saperne di venir su tra le pile in cui era stivato; perché un Oscar di 1257 pagine, pesante come un “Millennio” Einaudi, io non l’avevo mai visto. “Che roba è, chi diavolo è questo sconosciutissimo scrittore italiano?”. Andai alla prima pagina, al primo paragrafo, e lessi: “Il sole tramontò quattro volte sul suo viaggio e alla fine del quarto giorno, che era il quattro di ottobre del millenovecentoquarantre, il marinaio, nocchiero semplice della fu regia Marina ’Ndrja Cambrìa arrivò al paese delle Femmine, sui mari dello scill’e cariddi.” Un inizio così, nemmeno l’avevo letto mai. Potevano iniziare così, mi dissi, soltanto Omero, o Dante, o Melville. Ma neanche Kafka (Kafka! il fuoriclasse degli inizi), neanche Proust. Neanche la Recherche inizia così – e non devo certo spiegarti che cosa intendo con questo “così” – se un libro è libro, non può iniziare che così, con questo respiro libero e intransigente, con questa perfetta misura prosodica, con questo paragrafo che è cellula germinativa di tutto o che tale si lascia immaginare, ed è perciò che invita a proseguire. E difatti proseguii, all’impiedi, già più che sbalordito, con il librone in mano: “Imbruniva a vista d’occhio e un filo di ventilazione alitava dal mare in rema sul basso promontorio. Per tutto quel giorno il mare si era allisciato ancora alla grande calmerìa di scirocco che durava, senza mutamento alcuno, sino dalla partenza da Napoli: levante, ponente e levante, ieri, oggi, domani e quello sventolio flacco flacco dell’onda grigia, d’argento o di ferro, ripetuta a perdita d’occhio“. Sai, mi rivengono i brividi ora, mentre trascrivo questi due paragrafi che so ormai quasi a memoria, come mi vennero allora che sentii le parole, i periodi entrarmi dentro per la prima volta, come onde, come onde portate da uno “sventolio flacco flacco“, onde di mare senza equivoco, senza sbaglio, perché solo il mare entra così, “senza mutamento alcuno“, solo il mare ti entra dentro “ieri, oggi, domani” e dunque per sempre (….) Dunque un libro di mare, un (altro) libro sul mare, mi dissi, quasi indovinando. In realtà, un libro con il mare: (…),cioè dentro il mare. E se un simile libro iniziava così, non era ovvio che così doveva finire? (…) Non per smania di sapere come sarebbe andata a finire una vicenda di cui non sapevo ancor nulla – tranne il nome del protagonista: ’Ndrja Cambrìa – ma per ricavare conferma che mi trovavo davvero “intrigato” con il mare di questo libro, dentro quel mare che iniziava il mio “occhio di conoscitore” (di libri di mare) a nuove e impensabili, forse “tormentose serpentine” di immagini e figurazioni (…) non per smania, dunque, andai all’ultimo paragrafo dell’ultima pagina, e lessi: “Allo scuro si sentiva lo scivolio rabbioso della barca e il singultare degli sbarbatelli come l’eco di un rimbombo tenero e profondo, caldo e spezzato, dentro i petti. La lancia saliva verso lo scill’e cariddi, fra i sospiri rotti e il dolidoli degli sbarbatelli, come in un mare di lagrime fatto e disfatto a ogni colpo di remo, dentro, più dentro, dove il mare è mare“. Ecco, Francesco, se si può mai suggerire l’immagine di una esperienza di lettura, la mia, con Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, ebbene essa è ancora tutta dentro il petto, calda e spezzata, tra quell’inizio e quella fine. Ancora adesso, che sto rileggendo questo libro dopo quasi vent’anni dalla prima volta, da quell’indimenticabile mese di maggio dell’88, mi sento tutto preso, compreso, anzi orcinusamente pigliato tra inizio e fine: “dentro, più dentro, dove il mare è mare“. Ma che cosa c’è “in mezzo” a questo libro formidabile, prodigioso, il più bel libro che io, adesso, sì, adesso posso confessare di aver avuto la ventura di leggere e che leggerò mai, te lo dico lucidamente e a cuore aperto, anche dopo Kafka, e Joyce, e Proust, e Musil, e Saenz, e Lezama, e Cabrera(…) Ora, avrai capito che per me, “in mezzo”, per il momento, c’è solo il mio, non solo entusiastico, ma più che meditato, meditato da vent’anni, invito a leggere il più bel libro di tutta la “letteratura italiana”. Non entrerebbe nelle tasche di una giacca da camera, e nemmeno in quelle di un cappotto. Ma so che mio nonno, se avesse avuto la possibilità di vederlo (il libro uscì nel ’75, lui morì nel ’71, l’edizione in Oscar è dell’82) l’avrebbe raccolto dal banco dei “metà prezzo” e portato con sé sulla sedia a sdraio. So che nessun “consiglio di lettura” potrà mai valere per me quanto l’immagine di quel mite, bonario, anziano signore intento a misurare le tappe della sua sobria esistenza attraverso il più “allianante” degli esercizi umani: la lettura di un bel libro. E dunque, a mia volta, come e a chi “consigliare”? Sarò riuscito a trasmetterti almeno quella immagine? Potrò cominciare a contarti, “ieri, oggi, domani”, tra gli ancor troppo pochi lettori di Horcynus Orca?”
Claudio Cinti – www.exeresi.it