La prospettiva se ne rimaneva in bilico sul filo del rasoio, camminando bendata come un’equilibrista a parecchi metri di altezza. La sua ombra si rifletteva su un muro bianco, illuminato dalla luce di un proiettore. In sottofondo il rumore di una bobbina di un film arrivato alla fine e interrotto. Si bloccava impaurita, assalita da improvvise vertigini per l’altezza furiosa. Metri di un vuoto senza fondo e senza arrivo. Luogo adatto a una caduta dagli effetti speciali, molto speciali. Si cade, si cade, si cade senza mai arrivare.
La prospettiva si manteneva in bilico verso il vuoto. Senza guardare, sentiva sotto di sé l’altezza del precipizio senza fondo nel quale rischiava di cadere. Tirata giù da numeri e richieste, mutava la sua angolazione. Tra file e attese roteava gli occhi all’indietro per non vedere. Si era alla fine ritrovata capovolta. Appesa al filo, sopra al precipizio.
La prospettiva guardava solo dentro, rifugiata nel buio di un mancato sguardo. Questo, ormai sfuggito, si era perso verso l’orizzonte. Lì moriva come un uccello in volo, avvolto dai raggi ancora caldi di un sole al tramonto. Il futuro davanti, dentro e sotto il precipizio e, dietro le spalle, il passato. Prossimo prossimo, con un piede nel giorno ancora vivo. La prospettiva raggomitolata e impaurita si era voltata per un solo istante. “Ricordati di me” le aveva allora sussurrato quello. E lei, appesa con un piede solo al filo, aveva chiuso gli occhi in segno di ricambio a quel saluto ormai definitivo.