L’otto di febbraio sono entrata in una sala operatoria per la prima volta in vita mia. Erano le due di pomeriggio, sono ritornata nella mia stanza di ospedale quasi alle nove di sera. L’intervento che ho subito è durato parecchie ore di cui onestamente ricordo a malapena un prima e un dopo. Nel mezzo, un buco profondissimo di vita che non saprei davvero descrivere. L’anestesia è una roba pazzesca, qualcosa che ti conduce in un posto senza memoria. Non è vita, non è morte, non è sogno. Forse qualcosa di simile al nulla. Sì, forse l’anestesia ti conduce in maniera istantanea in una parentesi di nulla. Averla vissuta per la prima volta… “Caspita!!!” mi sono detta. Viverle certe cose non è come immaginarle. Non è quel che si crede. Mi sono risvegliata dalla mia anestesia e giuro che ci ho pensato che, se proprio dovevo morire, ci avrei messo la firma a morire sotto l’anestesia. Non mi sarei accorta di un tubo, al diavolo tutto, dolore, e compagnia bella. Comunque non lo nego che mi sono risvegliata contenta di averla scampata. Poi certo tutto un turbinio di emozioni e fastidi vari del ritorno dal nulla che non sto qui a raccontare. In effetti pensavo piuttosto che mi sono ritrovata sotto i ferri in piena pandemia COVID sars 19. Che l’anno scorso, se me lo avessero detto… Dio mio, io che disinfettavo ogni cosa della spesa con l’amuchina, che a stento uscivo a buttare l’immondizia. Ci pensavo sì a quei poveracci costretti a dover andare, che so, a fare le analisi del sangue o a combattere con qualche malattia importante. Io mi rintanavo nella mia casetta, nella mia nicchia, facevo la mia cyclette, e mi sentivo, nonostante il virus, parecchio fortunata. Non deve essere stato quindi per scarsa riconoscenza nei confronti della vita che poi mi ci sono ritrovata anche io tra quei poveracci. C’è da dire che anche ad empatia a me è difficile che mi si batta. Io mi ci sono sempre immedesimata nei guai degli altri, talmente tanto che a volte penso di aver vissuto molte vite oltre la mia. O meglio… la mia e tutte quelle degli altri che c’avevano i guai addosso. Per questo motivo credo che non si sia trattato nemmeno di indifferenza verso il mondo se a un certo punto l’ordine delle cose del mio universo si deve essere un attimino inceppato. Uno certe domande se le pone lo stesso, pure se sono cretine, anche quando lo sa che sono cretine e che, quindi, che te le fai a fare. Poi è tutto un crescendo di sensazioni, pensieri e considerazioni. Talmente tanti che spesso me lo dico da sola “ma dov’è che voglio andare a parare?” In effetti andare a parare, che dovrebbe essere in generale un interrogativo serio da porsi, non può però essere l’unico obiettivo da realizzare. Il punto è che a me il pensiero davvero se ne va per mille direzioni e, caspita, quanto li invidio quelli che invece ce l’hanno così chiaro in testa dove devono andare a parare e se ne strafregano di tutto quanto il resto con tutte quelle storie di parole, parolacce e concetti da esprimere ad ogni costo. La sensazione sgradevole spesso mi resta dentro. Sopra, sotto, se ne va proprio a spasso. Stamattina ad esempio mi ci sono proprio lambiccata il cervello sopra questo concetto: in otto mesi sono entrata e uscita dall’ospedale e, lo posso giurare, io lì dentro ci ho visto veramente tantissima gente, compresi infermieri e dottori. Sì, poi non lo nascondo, spesso leggendo in giro certe cose me lo chiedo se non stavo solo immaginando. Ad esempio che quelli lì ci stanno tutti i giorni a curare la gente malata che, a meno che non l’abbia presa forte la cantonata, non lo è mica solo di Covid. A questi è destinato uno solo dei piani dell’ospedale. In tutti gli altri ogni giorno c’è un gran brulichio di persone. Poi, lo riconosco, l’anestesia io non lo so che strascico deve avermi lasciato dentro al cervello. Però me li ricordo bene i dottori alle nove di sera nella mia stanza. Penso che quell’otto febbraio avevano operato tutto il giorno, mica pizza e fichi. Quelli stavano lì, stanno lì ogni giorno ad operare, diagnosticare, curare, parlare, consolare la gente che malata non lo è solo di covid. Oggi da qualche parte leggevo che il problema cruciale è la “narrativa”. Devo andare ad approfondirlo questo concetto, lo devo capire. Per adesso mi dico che l’ospedale che frequento da otto mesi a questa parte deve essere una sana eccezione alla regola dei tempi. Probabilmente perché si trova sull’isola tiberina, deve evidentemente avere qualcosa di speciale.
Immagine di Stefania Mirra – Far uscire una curva da una retta
Lineare ed ondulato…cioè le tue circonvoluzioni sulle cose che quando le leggo mi fanno compagnia e mi fanno vedere le cose sotto una luce più ottimista ma non troppo…
❤