E dunque ci sarebbe questa tendenza a seguire fili conduttori invisibili, a ispirarsi dietro le quinte della vita vera. Ma quale sarà poi la vita vera? L’autentica emozione che racchiude l’istante vitale? Domande ataviche aleggiano sempre più leggere nel cielo tenue della mia fantasia. Prevalentemente bianco e senza nuvole. Forse tutto una nuvola. Mi concentro sui suoni mattutini del cambio stagione. Cinguettii, fruscio di foglie. In sottofondo l’odore del caffè appena bevuto rimasto nel fondo di una tazzina sotto il naso. Un pozzetto minuscolo, nero e profondo che mi nasconde il futuro. Qualcuno più capace leggerebbe nelle mezzelune, in quelle piene, nei buchi al centro, nelle macchie incerte, nei rivoli rimasti attaccati alla ceramica bianca. Gocce, essenza di vita colate giù dalla bocca. La mia fantasia è una vecchietta piena di acciacchi e reumatismi a cui scricchiolano le ossa. Inforca occhiali sul naso per mettere a fuoco e distinguere forme al di là delle nuvole. Scruta il cielo e la tazzina del caffè, le forme ovattate e le scolature scure. A stringere gli occhi, sembrano varchi, porte e anche portoni con i ghirigori a decorare minuziosamente. Volto la tazza e diventano mostri con la bocca spalancata. Volto la tazza e mi pare di vedere la torre Eiffel. Sono dunque a Parigi mentre un uccellino si avvicina e cinguetta più forte da dietro le mie spalle? Su questo balcone che si sporge sul centro di Parigi, lancio un occhio alla copertina del libro, quello trovato in libreria seguendo le mollichine nel bosco della coincidenza. Era un sabato mattina di esattamente sette giorni fa e l’umore sembrava si stesse stiracchiando dopo aver dormito un po’ troppo, accomodato malamente nello spazio angusto di una bara di legno chiara, una di quelle con i fiori e le immagini sacre incise nel legno. L’umore nero si era rischiarato finanche la voce e aveva guardato la luce di una mattina di fine estate riparandosi gli occhi con le mani. Poi tutta una strana euforia, una voglia di fiori belli ma appassiti, che si era dovuto ripiegare su una pianta, talmente viva da sembrare finta. Le mollichine di Pollicino erano a veder bene disseminate già prima del bosco, sulla strada. Parole, fatti e letture. Fili sempre conduttori, sottili e sottilissimi che si sfilacciano e spariscono, inghiottiti nell’aria viziata della realtà, al primo accenno di un pensiero partorito dall’emisfero sinistro del cervello. Nel mentre, quello destro se ne resta agonizzante tutto pesto sotto i colpi ricevuti. Un pugile messo all’angolo, peso piuma contro peso massimo. Però quando sembra morto eccolo che invece si riprende. Saltella, si rinvigorisce e sferra il pugno vincente. Un cazzotto in pieno centro alla ragione. Alza il braccio in segno di vittoria tutta quella zona grigia complottista. Segue profumi come un cane da tartufo. Ai margini delle strade sterrate, annusa l’odore della terra bagnata e della pioggia che rinvigorisce. E rinvigorisce, rinvigorisce, rinvigorisce. Come un filo d’erba, spunta, nasce, cresce, esplode alla velocità di una moviola accelerata, stagliandosi verde sulle pagine del libro, lì dove le parole gorgogliano come acqua che scorre da un rubinetto e la magia si infila nella realtà come olio in un imbuto.
“C’è qualcosa nel modo in cui la speranza risale strisciando sulle nostre spalle fino a premere i suoi palmi contro i nostri occhi, facendoci sorridere pur se ignari del futuro. E siamo entrambi riluttanti a pronunciare il suo nome, per paura che possa svanire. C’è qualcosa nel modo in cui ci abbracciamo di notte, come naufraghi, come quell’estate in cui il mare ci lambiva i piedi, come quando ci siamo conosciuti. C’è qualcosa nel modo in cui diciamo lo faremo lo faremo lo faremo che risuona nelle nostre orecchie come una musica.” Sophie van Llewyn – Bottigliette