Mi chiedevo oggi quanto una distrazione, per essere tale, debba necessariamente essere gioiosa. Il vocabolario mi aiuta intanto a precisarne il significato, cogliendo la questione intrinseca al sostantivo femminile distrazione, del quale si legge: “Assenza del pensiero dalla realtà oggettiva”. La realtà oggettiva parrebbe ferma al suo posto mentre ciò che si sposta o si allontana o scompare addirittura inghiottito in un’assenza, è il pensiero. Lo spostamento, fino all’assenza, del pensiero da una qualunque realtà oggettiva, tende a farla sparire, benché realtà e benché oggettiva. Il che, ribaltando il concetto, si traduce nella conclusione che la realtà oggettiva possa essere in sostanza determinata dal pensiero: esiste, cioè, la realtà oggettiva, nella misura in cui il nostro pensiero è su di essa. Nel momento in cui questo, totalmente o parzialmente si sposta, la nostra realtà oggettiva si modifica, scompare, si rimpicciolisce, si ridimensiona. E’ dunque possibile definirla ancora oggettiva quella realtà oggettiva? Il filosofeggiare mi riconduce a qualche vaga reminiscenza, a qualche accenno di Spinoza che devo aver urtato nel mio girovagare tra i pensieri sulla morte che, nella sua qualità di realtà oggettiva per eccellenza, sarebbe più o meno necessario, metaforicamente parlando, prendere e accantonare da qualche parte del cervello e, per così dire, letteralmente dimenticare.
Come al solito ruspantemente tendo a tradurre il pensiero filosofico colto, quello che si abbarbica su sé stesso e che per seguirlo richiede un discreto sforzo di cervello. Il mio, haimè, non è più così tonico come quello di un tempo. Cosicché mi ci vogliono dai cinque ai sei minuti almeno per concentrarmici sopra a quel pensiero che mi pare un po’ cane che si morde la coda: l’uomo è libero nella misura in cui non pensa alla morte e non pensa alla morte perché è libero dalla paura della morte. Insomma quelle cose lì che a me mi hanno sempre fatto venire il dubbio di essere un tantino tonta e che la parvenza di intelligenza che forse deriva dai miei occhiali e dal mio sguardo languido perché consistentemente miope, prima o poi verrà smascherata e riconosciuta nella sua vera essenza, appunto, di tontaggine vera.
Oggi le elucubrazioni mentali sulla distrazione sono a loro volta sufficientemente distratte dalla loro stessa realtà oggettiva di elucubrazioni mentali. Lo spostamento del pensiero è senz’altro dovuto alla presenza impettita di una cornacchia che, camminando a distanza decisamente ravvicinata, mostra accenni di umanizzazione di cui non so se da parte sua possa proprio andare fiera. Il pensiero distraente è tutto concentrato nella considerazione che l’umanizzazione degli animali è molto più preoccupante della animalizzazione degli umani. A seguire il filo conduttore del ragionamento, devo necessariamente allontanarmi dalla realtà oggettiva delle elucubrazioni mentali sulla distrazione perché nel frattempo la cornacchia che mi cammina a fianco mi riconduce ancora una volta a Dostoevskij, che dalla suscettibilità è nel frattempo approdato alla cattiveria umana. Consapevolmente intraprendo i percorsi tortuosi e piuttosto accidentati del mio spartano acculturamento, quello cioè che mira a stazionare per giorni sulle pagine, ad esempio, focali de Il Grande Inquisitore nel romanzo I fratelli Karamazov. Cerco di coglierne l’essenza, di andare oltre le parole, di scavalcare la provocazione, di percepire il nascosto, di interpretare il simbolo. Non sempre tuttavia ci riesco.
Insomma, la giornata si presterebbe pure ad approfondire certi meandri come al solito oscuri e di sostanza ma il bel sole e il cielo azzurro invitano a più liete cose, a più gioiosi pensieri. Così oggi decido di lasciare un po’ stare, insomma di rimandare le distrazioni pesanti e mi distraggo da queste con la distrazione delle belle emozioni. Con quelle liete e gioiose, ad esempio della vittoria dei premi importanti. Il David di Donatello mi pare oltremodo e gioiosamente distraente, soprattutto se a vincerlo sono Emanuele e Davide, i nipoti, di Antonio, e il loro amico Diego.