La casa di fronte è un concetto che la mia mente continua a considerare. Mi affaccio alla finestra e la guardo. Ne osservo i lineamenti e le scorticature che, come rughe su un volto invecchiato, aumentano ogni anno che passa. Mi appoggio al davanzale e sospiro pure se il panorama della casa di fronte non è proprio dei migliori. Ci intravedo l’origine di molti miei viaggi. Li ho sempre organizzati con il pullman della mia fantasia, anche quello ogni anno più vecchio. Ci salgo pigramente sopra, perché è uno di quelli un po’ scomodi, con quell’odore tipico dei pullman scomodi e vecchi, quelli che se non mangio un cracker salato prima di salirci sopra, mi viene da vomitare. Ma fa niente, deve essere così il pullman della mia fantasia, scariolato e scarno come il muro del palazzo di fronte, scorticato. Mi appoggio dunque al davanzale della finestra e viaggio, ogni volta viaggio tra gli spigoli delle emozioni acuminate, tra le punte delle pietre che la memoria mi scaglia contro. Mi dico che questa città dove sono nata è una distesa di pietre pronte a colpirmi e che questa nostalgia che mi attanaglia un po’ da tutta la vita ci è andata sempre a braccetto. Cosicchè la mia nostalgia è un arco che scaglia ricordi che, come pietre acuminate, colpiscono il mio cuore mentre sul pullman della mia fantasia scariolata viaggio lontano, dentro il muro scorticato della casa di fronte, appoggiata al solito davanzale.
Quando era Natale l’atmosfera era ovattata. Spesso c’era la neve, proprio come deve essere Natale. Il bianco copriva anche i rumori. Si creava un mondo soffice, lento, silenzioso. Si affrontavano salite e discese respirando il freddo di un’aria pulitissima, che scendeva dentro, rigenerando, ossigenando, rinvigorendo. Bastava imprimere i piedi sulla neve candida, immacolata, soffice per sentire di esser passati sulla terra, per conservare l’impronta della vita dentro sé stessi, per avvolgere quell’attimo di freddo gelido dentro il caldo di un ricordo, senza paura che gli anni possano scongelarlo, liquefarlo, vaporizzarlo. Come il gelato fritto dei cinesi. Mantenuto all’interno di quel dolce caldo. Il mio ricordo avvolge quell’aria gelida di Campobasso, quella neve sulla strada deserta, quei fiocchi lenti e bianchi che cadevano e che si stagliavano alla luce di un lampione acceso alle sei del pomeriggio, mentre le luci dalle finestre facevano presagire cucine in fermento per il cenone della vigilia.
Me ne resto appoggiata al mio davanzale e il mio Natale si avvia con il sacco in spalla di queste mie cose. Lo inghiotte la nebbia di una giornata bianca, il bianco di un ricordo di neve e quello di un cielo prima della sera. Lo saluto dalla finestra mentre con le mani in tasca e un’alzata di spalle lui cammina lento e nemmeno mi guarda. Chi sa a cosa mai pensa. Il mio Natale è un vecchio con il cappello in testa che passeggia per la strada. Le mani dietro la schiena mentre ripensa alle luci belle della sua lontana infanzia. Era anche lui un bambino felice prima di diventare un vecchio Natale con le mani dietro la schiena. La nebbia bianca lo confonde come una cataratta che appanna la vista. Era tanto tempo fa. Troppo tempo fa. Non era nemmeno lui. Cose di un altro Natale.
Io non ce l’ho la pazienza di raccontare come era quel mio Natale che magari è rimasto chiuso in una buccia di mandarino o in una notte di neve intravista dal balcone. Non so, deve essersi smarrito tra tutto quel bianco di nebbia di neve e di cielo. A volte mi pare di non averlo mai conosciuto questo benedetto mio Natale. Forse è stato un Natale immaginario che ho creato a somiglianza di una qualche mia idea di Natale. Ora è solo un vecchio che mi volge le spalle e nemmeno mi riconosce mentre io almeno ci provo a cercare di ricordare di lui quel particolare respiro e l’odore, quello di muschio, per esempio, sulla pietra e il pezzo di legno usate da mia madre per fare la grotta del presepe.
Ecco, forse il mio Natale era il pastorello che dormiva placido adagiato sul morbido muschio nella notte rischiarata dall’intermittenza delle lucette colorate. Ah, quanto mi sarebbe piaciuto essere io quel pastorello che sonnecchiava tra pecore e galline immobili, su sentieri di farina bianca. Forse il mio Natale era quel pastorello che io volevo essere oppure la casetta con la lucetta dalla quale si intravedeva una tavola imbandita in miniatura o la candela accesa che zia Bice portava in giro per casa mentre noi dietro di lei cantavamo tu scendi dalle stelle o Re del Cielo…
Il mio Natale è pieno di pezzi di sogni che forse un giorno sono stati ricordi. Antichi e belli. Come il sospiro di sollievo che tiravo all’arrivo da Roma a Campobasso, alla vista del Castello. Poi il tinello di mamma, i solitari con le carte e le domande pigre dalla sua poltrona. Le mie risposte, i racconti delle mie giornate.
In riva al mare dei miei ricordi….