Era d’estate. Una di quelle di sole a spaccare le pietre, di afa e insonni nottate. Le immagini tremolanti in controluce, quelle che si sprigionavano di solito a mezzogiorno dagli asfalti deserti e infuocati dei giorni lunghi di luglio, senza soluzione di continuità, si erano riversate in quegli altri di agosto che, rispetto a quelli, avevano in sordina cominciato a rosicchiare qualche minuto di luce. In maniera truffaldina, senza che nessuno se ne accorgesse. Ce ne sarebbe poi stato uno meno attento, di giorno, che avrebbe svelato il segreto e piu’ di qualcuno si sarebbe allora accorto che la notte aveva ripreso ad arrivare prima e che tutto si era irrimediabilmente accorciato. Erano comunque ancora giorni di brezze da respirare per le strade, quelle dove i primi raggi tenui dei tramonti profumavano di fritture di pesce e di onde del mare. Gente con la pelle abbronzata si riversava in giro a passeggiare prima della cena. Avvolta in comodi abiti, ad esempio di lino bianco perfettamente stirato dove, nell’assenza di pieghe, lo sguardo poteva introfularsi fino ad entrarci dentro. A scrutare da vicino fibre candide e tese, allungate e allargate a sconfinare nello spazio aperto di un deserto di sabbia bianca, illuminato dal chiarore freddo di una luna piena su corpi caldi di sole. Gli stessi che una manciata di ore prima affondavano in monotone e lente movenze sulla spiaggia, con borse e cappelli su capelli nonostante il mare perfetti. Erano giorni in cui veniva facile scrutare l’altrui perfezione, quella preparata e riposta nelle valige, nel ticchettio degli zoccoli di legno a cedere il passo a infradito brillanti e sbrillucicanti, da calzare la sera, con i piedi curati ed esposti, a mostrare unghie dipinte con gli smalti colorati. Piedi nudi e colori allegri, da sfoggiare su gambe accavallate seduti ai tavolini per strada durante gli aperitivi lenti della sera. In attesa delle stelle ad illuminare il mare e dei lampioni arancioni a spandere luce nei vicoli dei centri antichi. Erano giorni decisamente d’estate, di pomeriggi lenti e di sogni. A sopraggiungere da quel confine con la realtà da scrutare allungati mezzi addormentati sotto l’ombrellone. Li seguivo come il filo di un gomitolo di lana che si dipanava e raggiungeva altri tempi, altri mari. Ricordi come matrioske si aprivano uno dentro l’altro risvegliati da un colore, un odore, un’assonanza cioè della mente da cogliere al volo, da aggrapparcisi come alle corde di un’altalena dove potevo ritrovarci ancora una bambina sopra, ancora anche lei perfetta nei suoi pantaloncini azzurri e la camicetta blu con le maniche a palloncino dove fiorellini rosa dipinti spiccavano nella loro bellezza. Anche quelli giorni d’estate, di nonni vestiti sulla spiaggia con le canottiere bianche sotto le camice aperte. Altri abiti di tempi altri, pantaloni lunghi arrotolati ma anch’essi perfetti e bloccati dentro foto scattate al sole sulla sabbia. Erano giorni tipicamente d’estate, di strade silenziose e deserte percorse a piedi nelle ore più calde. In cerca di una cabina telefonica e di qualche gettone. Per chiamare un amore lontano, ormai partito, senza salutare. Giorni d’estate, lunghi da far passare. Ore calde da respirare. Suoni di cicale da ascoltare. Con il profumo del mare, a ricordare.

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