Ho incontrato Borges. Non so perché ciò sia accaduto, perché questo scrittore a me sconosciuto sia entrato nella mia vita in una mattina assolata di gennaio. L’ho incontrato chiedendomi per strada come si pronunciasse il suo nome. Ho incontrato Borges pronunciando sicuramente in maniera impropria il suo nome. Ho incontrato Borges chiedendomi anche se una come me potesse essere in grado di capirlo, Borges. Decido quindi di provare a leggere Borges senza chiedermi oltre di Borges. Affronto L’immortale con la testa vuota, tipo tabula rasa. La scrittura concisa mi colpisce. Racconta con “lentezza possente” di una storia senza tempo e irreale. Entro in un sogno altrui ma sento mie le sensazioni: paura, speranza, angoscia. Colgo sparsi qui e là pezzi di scrittura altamente poetica. Leggo, rileggo e leggo cercando di afferrare il filo di un pensiero che mi sfugge continuamente. Staziono di contro sulle frasi delle quali ammiro una cadenza monotona ma dal suono perfetto e mi sento come all’interno di qualcosa al contrario, capovolto e assurdo come il palazzo immortale del racconto che leggo, “opera di dèi “morti”, forse addirittura “pazzi”. Il pensiero sfugge come sfuggono i sogni. Mi resta una sensazione fredda dentro, “un silenzio ostile e quasi perfetto” come quello che si potrebbe sentire immaginando l’eterno. Una sensazione pesantissima e leggerissima nello stesso tempo, un incubo al quale, nonostante svegli, si sente ancora di appartenere. Alla fine del racconto tutto è vago, quasi sospeso ad eccezione della certezza che non lo capisco Borges. E che, per la miseria, va bene così. Va, senza ombra di dubbio, assolutamente bene così!