Erano giorni di poveracci malandati da portare sulle spalle. Da aggrovigliarsi dentro malesseri divenuti dalle certe sembianze, quelle spettinate, con barbe lunghe e capelli sporchi. In quei giorni pensavo alla roulotte sotto casa, quella dove abitava Pierre, il signore francese, con il suo cane. Aveva con il tempo guadagnato l’amicizia dei genitori dei bambini della scuola di fronte, dove se ne stava tutte le mattine, in pantofole, con il sigaro in bocca, a osservare il via vai delle prime ore del mattino. Quel movimento vorticoso di macchine, motorini, biciclette, passeggini e di madri, padri, maestre, nonni. Ogni giorno a correre o camminare, a piangere o ridere, avvicendandosi in variopinti colori. Lui osservava tutti con il suo sguardo calmo e senza fretta, offrendo il suo contributo per custodire cani che non potevano entrare. Si diceva che avesse una storia questo calmo signore francese e che toccava lasciarlo in pace in quella sua vecchia roulotte di fronte la scuola. Qualcuno ci aveva provato a rimandarlo via, a quel suo paese francese. Poi però lui era restato. Mi chiedevo se fosse stato un bene perché quella sua roulotte io la immaginavo sempre sotto i diluvi di Roma, quando il cielo fa quello schiamazzo tremendo nei giorni d’autunno e tutto si allaga, oppure ad arroventarsi sotto il sole dell’estate. Me la immaginavo proprio in un pomeriggio di una qualche domenica di luglio, uno di quelli silenziosi e deserti di Roma, quando tutta la gente se ne va a Ostia al mare. Lui resisteva e chi lo avrebbe mai detto che viveva proprio lì, in quella vecchia roulotte difronte alla scuola. Un vicino di casa a cui si sorride, con cui a volte si scambiano quattro chiacchiere per strada. Poi ognuno per la sua strada. Si sarebbe detto: “Io a morire voi a vivere” oppure lui a vivere noi a morire oppure noi a morire e lui anche.
Come un pappagallo verde su un ramo grigio d’inverno