A proposito di martelli pneumatici e caterpillar, la mia amica Fiorella mi lancia l’amo di Philip Glass. Al suo cospetto mi sento a tutti gli effetti pesce di acqua dolce. Direi proprio una sorta di trota salmonata dall’aria vaga e perplessa. Abbocco tuttavia alla sua provocazione che mi sembra vada molto bene a braccetto con quella dell’altra mia amica, Stefania, sui nomi impronunciabili di musicisti rinchiudibili e, forse, riscopribili nelle matrioske del pensiero. Le provocazioni si affacciano alla mente con la faccia piuttosto gustosa del famoso maccherone di Alberto Sordi quando faceva l’americano. Leggo così qua e là su Philip Glass e Pauchi Sasaki, storia della giovane allieva peruviana di origini giapponesi e del maestro ottuagenario, e mi pare di aver centrato presto il nome improbabile ad effetto. Che in effetti, però, pure troppo semplice si rivela dopo poco a confronto di Koyaanisquatsi , film documentario del 1982 di cui Philip Glass firma la colonna sonora (lascimmiapensa.com recensione). Mi sistemo dentro alle mie curiosità come un bucatino al sugo a bagnomaria di mia nonna. Dalla posizione tiepida e galleggiante penso di essere però piuttosto irriverente negli accostamenti metaforici di carattere culinario, forse stimolati dalla mancanza fisica del carboidrato. Insomma, mi avvicino alle mie curiosità con la stessa grazia di Erminia quando alla Biennale di Venezia si riposa sulla sedia-opera d’arte esposta. Il paragone mi si affaccia alla mente, lì dove è tutto un aprirsi e chiudersi sipari, un entrarci dentro con il naso e annusare profumo di idee che possono inseguirsi l’una con l’altra e collegarsi, fondersi come metalli in qualche lega sconosciuta fatta di parole, immagini, pensieri, suoni e percezioni. Scopro così le Metamorphosis del famoso compositore statunitense ottantenne Philip Glass e della sua ispirazione dal racconto di Kafka, tutta lì riversa nella sua musica minimalista. Ancora mi viene incontro la sedia, nuda e cruda sotto il peso dell’inconsapevole Erminia-opera d’arte. Mi sistemo come lei sul concetto di musica tecnicamente fondata sull’estrema riduzione del materiale musicale e sul susseguirsi di interazioni, micro-variazioni, composizioni timbricamente uniformi che se solo avessi la più pallida idea di cosa mai stanno a significare…Il concetto me lo auto-chiarifico semplicisticamente, ancora una volta con un’irriverentissima assonanza della musica minimalista alla pasta al forno avanzata di ieri, a quei sparuti maccheroni leggermente bruciacchiati, rimasti sparpagliati in una teglia. Li ho mangiati in una cucina solitaria, reiterando senza timbri armonici la masticazione, faticosamente, stancando alquanto la mandibola. Mi chiedo se la musica minimalista, priva di una struttura definita dall’armonia, possa in qualche modo ricordare il gusto per quella pasta al forno asciutta, priva di tutta la sua umidità e il cui sapore si sprigiona lentamente, quasi in ritardo, come una proiezione del cervello di qualcosa che è stato e che non è più ma che ancora potrebbe essere. Ecco, mi chiedo se la musica ispirata alla trasformazione, alla metamorfosi possa in qualche modo assaporarsi come il maccherone ricordo di una pasta al forno che fu. Intanto tiro le redini dei miei pensieri e il passo pesante della matrioska mi conduce nel centro della questione, nella possibilità di un ascolto meditativo, simile al sottofondo ai miei pensieri mentre da sola mangiavo ieri malinconicamente la mia pasta al forno in cucina e mentre mi soffermo su Metamorphosis Two, mi colpisce il commento di un tizio: “Uma obra que descreve a rotina urbana do individuo melancolico das grandes cidades” (Un’opera che descrive la routine urbana di un individuo malinconico delle grandi città). E come al solito il filo conduttore che dal mio cervello si dipana nell’oceano immenso di fatti, cose, opere, idee mi riconduce alla fine a casa, sul ramo grigio e malinconico del mio pappagallino verde, ex contemporaneo, tendenzialmente metropolitano .